Ai fini della configurabilità del reato di cui all’art. 727 codice penale “abbandono di animali”, la detenzione di animali in condizioni produttive di gravi sofferenze non richiede necessariamente la presenza di malattie o malnutrizione, ma può consistere anche in situazioni di patimento psico-fisico dovuto a condizioni di abbandono o incuria.
È quanto ribadito dalla terza sezione penale della Corte di Cassazione la quale, con sentenza n. 30369 depositata in Cancelleria il 24.07.24, ha dichiarato inammissibile il ricorso promosso dalla proprietaria di tre cani e ha confermato il sequestro preventivo, emesso dal Gip del Tribunale di Vicenza, avente ad oggetto gli animali della ricorrente, in ordine al delitto di cui all’articolo 727, comma 2 del codice penale.
Nel caso di specie, i militari che, in seguito a numerose segnalazioni, avevano eseguito il sopralluogo a casa della ricorrente, avevano riscontrato sul posto uno stato di sporcizia e di sostanziale abbandono in cui si trovavano i tre cani, detenuti in condizioni non compatibili con le esigenze minime che debbono essere assicurate agli animali domestici. In particolare, gli accessi effettuati dai militari avevano riscontrato modalità di detenzione degli animali in un contesto caratterizzato da deiezioni diffuse non rimosse, cibo sparso sul terreno, incuria nella somministrazione dell’acqua da bere, lasciati soli per molte ore in casa o in uno spazio angusto e pieno di rifiuti.
A fronte di ciò, i cani sono stati allontanati dall’abitazione della ricorrente a seguito dell’emissione, da parte del GIP del Tribunale di Venezia, di un decreto di sequestro preventivo ex 321 c.p.p. in ordine al reato di abbandono di animali.
Di fronte alla Cassazione, la ricorrente deduceva la mancata valutazione della relazione veterinaria sullo stato di salute degli animali in base alle quale il Dott. Franchetti non aveva rilevato alcun segno di sofferenza degli animali, se non pregresse malattie, trattandosi anche di animali anziani e adottati. I carabinieri di Valli del Pasubio avevano trasmesso la relazione tardivamente alla Procura della Repubblica, solo a seguito di richieste da parte del difensore e dello stesso veterinario. Secondo la ricorrente, la mancata acquisizione nell’immediatezza della relazione del medico veterinario ben avrebbe potuto smentire l’ipotesi di reato e contrastare gli indizi del fumus alla base dell’ordinanza di rigetto. Su questo punto la Corte ha ritenuto inammissibile tale doglianza in quanto la ricorrente non aveva evidenziato né chi avrebbe affidato l’incarico al veterinario di cui trattasi, né in che termini e a quale fine, emergendo tale circostanza unicamente dal ricorso per cassazione senza allegazione alcuna a supporto, e non risultando che tale profilo fosse stato mai in precedenza rappresentato.
In ogni caso, la Suprema Corte, in linea con l’orientamento della consolidata giurisprudenza di legittimità, ha ribadito che, ai fini della configurabilità del reato di cui all’art. 727 del codice penale, la detenzione di animali in condizioni produttive di gravi sofferenze consiste non solo in quella che può determinare un vero e proprio processo patologico nell’animale, ma anche in quella che produce meri patimenti, in quanto non è necessaria la ricorrenza di situazioni quali la malnutrizione e il pessimo stato di salute degli animali, ma rilevano tutte quelle condotte che incidono sulla sensibilità psico-fisica dell’animale, procurando dolore e afflizione, compresi comportamenti colposi di abbandono e incuria.