In primo grado, il Giudice monocratico assolveva l’imputato accusato di maltrattamenti verso una Sua sottoposta asserendo che “trattandosi di una sede provinciale di un ente pubblico” e non di un ambiente parafamiliare, come richiesto dalla norma incriminatrice, non fosse possibile procedere a condanna.
Un tanto, pur riconoscendo che il dirigente aveva travalicato la sfera “relazionale dell’ambito lavorativo, secondo un disegno mirato ad emarginare il dipendente”.
Lo Studio appellava la sentenza di primo grado, rilevando che doveva applicarsi al caso concreto il reato di maltrattamenti, poichè, al di là della struttura complessa, bisognava verificare che rapporto di lavoro intercorresse tra datore di lavoro e dipende. Cioè se si trattava di rapporto lavorativo caratterizzato da relazioni intense ed abituali e da soggezione di una parte nei confronti dell’altra. Secondo la nostra difesa, si trattava proprio di questo.
Infatti, se per ipotesi dovessimo avvallare quanto sostenuto nella sentenza di primo grado, si creerebbe una disparità di trattamento tra un “soggetto subordinato che operi all’interno di una struttura lavorativa complessa e altro soggetto subordinato che opera all’interno di una struttura dimensionata quando, come nel caso di specie, non sussiste di fatto distinzione circa il ricorrere di un rapporto abituale e della soggezione di una parte nei confronti dell’altra”.
In via subordinata si chiedeva di riqualificare il reato contestato in quello di lesioni personali volontarie, poichè dal fatto ne era seguito per la persona offesa un disturbo ansioso depressivo che aveva portato ad una somatizzazione a livello gastrico e non solo.
Oppure la qualificazione dei fatti nel reato di cui agli atti persecutori (612 bis cp) o nel reato di violenza privata.
Non è stata ancora fissata udienza dai Giudici della Corte di Appello di Trieste.
Stiamo a vedere.