La quinta sezione penale della Corte di Cassazione ha accolto il ricorso proposto dal Procuratore Generale presso la Corte di Appello di Brescia avverso la sentenza del 9 aprile 2019 mediante la quale il Giudice di Pace della provincia lombarda aveva condannato Tizio ritenendolo colpevole del reato di minaccia (articolo 612 codice penale) per aver rivolto alla propria moglie, durante una conversazione telefonica, la seguente frase: “ritira le denunce altrimenti ti farò pentire di essere nata”.
La Suprema Corte ha affermato, sostenendo il ragionamento del ricorrente, che il fatto posto in essere dal marito della persona offesa deve essere ricondotto all’ipotesi, seppur tentata, di violenza privata (articolo 610 codice penale) considerando errata la qualificazione ai sensi dell’articolo 612 c.p. Secondo gli Ermellini, ciò che distingue il delitto di violenza privata da quello di minaccia non è tanto il fatto in sé – che può essere lo stesso in entrambe le fattispecie – quanto l’elemento intenzionale: per la sussistenza della minaccia è sufficiente che l’agente eserciti un’azione intimidatoria fine a sé stessa; la violenza privata, invece, “presenta sotto il profilo soggettivo un quid pluris, essendo la minaccia diretta a costringere taluno a fare, tollerare od omettere qualcosa”. In questo caso, l’imputato, uomo violento e alcolista, aveva chiamato e minacciato la moglie proprio al fine di spaventarla in modo tale che questa ritirasse le denunce precedentemente sporte nei confronti del marito (come si può leggere nella sentenza sotto riportata “la minaccia non era fine a sé stessa ma direttamente finalizzata ad ottenere dalla vittima un facere: il ritiro delle denunce).
Per tali ragioni, la Cassazione ha annullato senza rinvio la sentenza impugnata disponendo la restituzione degli atti al Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Brescia – autorità giudiziaria competente in ordine al reato di violenza privata – per l’ulteriore corso.