“Cosa indossavi”?, è la prima domanda che una donna abusata si sente ripetere dopo un’aggressione, trovandosi così a subire la c.d. violenza secondaria ovvero combattere con i pregiudizi di chi pensa che, in fondo, sia un po’ anche colpa sua.
Un tale modo di pensare è molto diffuso negli Stati Uniti, paese dove si registra uno stupro ogni 107 secondi, e anche in Italia dove troppo spesso ai superstiti viene attribuito un concorso di colpa che rende ancora più pesante il trauma da affrontare. A tal proposito basti pensare allo stupro di Firenze ed all’interrogatorio fiume subito dalle ragazze in sede di incidente probatorio.
Da questo interrogativo nasce “What Were You Wearing?”, una mostra organizzata da Jen Brockman, direttrice del Centro per la prevenzione e formazione sessuale del Kansas. Lo scopo è di annullare il senso di colpa dei superstiti e far capire che non può esserci nessuna giustificazione di fronte a una violenza.
Sono i 18 indumenti appesi a raccontare lo stupro subito e a dimostrare che non è l’abbigliamento che provoca una violenza sessuale, ma la persona che lo pone in essere.
“Vogliamo che le persone possano vedere se stesse riflesse nelle storie, negli abiti” ha raccontato a tal proposito al Chicago Tribune Jen Brockman, che insieme alla dottoressa Mary Wyandt-Hiebert ha ideato la mostra nel 2013, presentandola poi di università in università, per lanciare un messaggio forte e chiaro. “Speriamo che gli studenti possano capire che questa credenza così diffusa è in realtà falsa” ha commentato. “Molte vittime grazie alla mostra si sono ritrovate negli abiti esposti e hanno capito che non è stata colpa loro.” Ma il messaggio è arrivato diretto anche a tutti coloro che quella domanda, “Cosa indossavi?”, almeno una volta nella vita se la sono posta.