Con sentenza depositata il 22 gennaio 2019, la Quinta Sezione Penale della Suprema Corte ha confermato la colpevolezza di B.D., precedentemente condannato dal Tribunale monocratico e dalla Corte di Appello di Palermo per il reato di accesso abusivo ad un sistema informatico o telematico (art. 615 ter c.p.).
Secondo quanto emerso nei primi due gradi di giudizio, B.D. si era introdotto nel profilo facebook della moglie all’interno del quale aveva trovato (e fotografato) una chat “sospetta” tra la moglie e un altro uomo. Colto da spirito vendicativo, B.D. aveva poi modificato user name e pasword impedendo così alla stessa di accedere al suo profilo.
A sua difesa, B.D. sosteneva di aver scoperto tale chat per caso un giorno in cui, fuori casa, si era collegato da remoto al suo computer tramite cellulare.
Inoltre, l’imputato si difendeva affermando che chiunque avrebbe potuto accedere al profilo facebook della moglie dati i codici di accesso piuttosto comuni scelti dalla stessa.
Da ultimo, la difesa dell’imputato dubitava dell’operatività dell’art. 615 ter c.p. in quanto era stata la moglie stessa a comunicare le credenziali del profilo facebook al marito prima ancora che i rapporti fra i due si incrinassero definitivamente.
È risultata del tutto inutile la strategia difensiva del legale di B.D. in quanto già in sede di Appello erano emerse tutta una serie di circostanze comprovanti la responsabilità dell’imputato: tra queste, la conoscenza di B.D. dei codici di accesso, l’aver mostrato alla moglie, la mattina stessa della scoperta, la foto della chat incriminata (e di averla poi prodotta nel giudizio di separazione) e la prova che la connessione internet utilizzata per modificare la password del profilo della moglie fosse quella installata nella casa del padre di B.D.
La Suprema Corte ha ritenuto abusivi gli accessi compiuti dall’imputato nel profilo facebook della moglie, reputando del tutto irrilevante la circostanza che fosse stata la stessa a fornirgli le credenziali di accesso.
Accedendo al profilo social della moglie B.D. ha “ottenuto un risultato certamente in contrasto con la volontà della persona offesa ed esorbitante rispetto a qualsiasi possibile ambito autorizzatorio del titolare dello ius excludendi alios, vale a dire la conoscenza di conversazioni riservate e finanche l’estromissione dell’account Facebook del titolare del profilo e l’impossibilità di accedervi”.
Nonostante l’autorizzazione implicita fornitagli in passato dalla moglie, B.D. non aveva il diritto, da un punto di vista giuridico, di spiare il profilo facebook dell’attuale ex moglie né tanto meno di modificarne i dati d’accesso: agendo in tal modo si è reso colpevole del reato di accesso abusivo ad un sistema informatico.
Da un punto di vista umano, lasciamo ai lettori le valutazioni sulle condotte di un marito sospettoso in cerca della verità!