Nell’era dei social e della comunicazione in rete, anche i ristoratori e, in generale, i titolari di esercizi commerciali hanno scelto di promuovere e pubblicizzare le loro attività mediante piattaforme online – facebook, istagram, tripadvisor e molti altri – per farsi conoscere e incrementare così i loro guadagni. Al giorno d’oggi, l’imprenditore decide di affidarsi al consumatore il quale, del tutto liberamente, ha la possibilità di “dire la sua” esprimendo giudizi e considerazioni, più o meno obiettivi. Così facendo, ogni persona, accedendo a tali piattaforme, potrà leggere il giudizio di un altro utente. Una sorta di pubblicità “a doppio taglio”: ricordiamoci, infatti, che una “semplice” recensione positiva o negativa può essere in grado di decretare il successo o, al contrario, il fallimento di un’attività commerciale.
Ma le recensioni negative sono sempre lecite? L’utente può offendere il lavoro di più persone senza limitazioni e senza conseguenze? A queste domande ha dato risposta una recente Sentenza della Quinta Sezione Penale della Corte di Cassazione, la n. 3148 del 2018. Questa la vicenda: Z.D., privato, aveva pubblicando sulla pagina facebook “I peggiori ristoranti di (OMISSIS)” un finto volantino della gastronomia di G.L. con il quale, in modo satirico, si promuoveva la vendita della pasta a prezzi esorbitanti. Tale pubblicazione aveva scatenato un vivace dibattito tra Z.D. e un altro utente durante il quale lo stesso Z.D. etichettava G.L. come “persona che maldestramente vorrebbero tentare di metterla in quel posto agli abitanti di (OMISSIS), scambiando persone cortesi per persone fesse” affermando che “neanche il peso dichiarato ci ha molto convinto” (alludendo alla deposizione di B. dalla quale sarebbe emerso che G.L. avrebbe consegnato 750 grammi di ravioli, facendosi pagare un chilogrammo).
Z.D., condannato sia in primo grado che in secondo grado per aver offeso la reputazione di G.L., proponeva ricorso per Cassazione, articolando un unico motivo, con il quale denunciava la violazione di legge e il vizio di motivazione in punto di operatività della scriminante del diritto di critica. A tale riguardo, giova fare riferimento all’articolo 51 del codice penale il quale afferma che “l’esercizio di un diritto (nel caso di specie l’esercizio del diritto di critica), esclude la punibilità”.
Gli Ermellini premettono che, ai fini di un legittimo esercizio del diritto di critica – intesa come espressione di opinione meramente soggettiva – devono sussistere i seguenti presupposti: a) i fatti esposti devono essere veri o quanto meno l’accusatore deve essere fermamente e inconsapevolmente – ancorché erroneamente – convinto della loro veridicità; b) le modalità espressive devono essere proporzionate e funzionali all’opinione o alla protesta, in considerazione degli interessi e dei valori che si ritengono compromessi; c) la cosiddetta continenza, verificando che i toni utilizzati dall’agente, pur aspri e forti, non siano gravemente infamanti e gratuiti ma pertinenti al tema in discussione; c) il rispetto della dignità altrui.
Nel caso di specie, è stata criticata l’attività di un esercizio commerciale e non l’etica del privato, in quanto uomo, che la gestisce. La Suprema Corte, considerati i fatti, la deposizione resa da B. nonché analizzate le espressioni incriminate e il contesto in cui si sono sviluppate ha riconosciuto, stante la presenza di tutti i requisiti sopra menzionati ai fini del legittimo esercizio del diritto di critica, la sussistenza della scriminante di cui all’articolo 51 del codice penale, annullando la sentenza impugnata perché il fatto non costituisce reato.