È questa la massima emersa dalla lettura della Sentenza n. 5241/2017 della Terza Sezione Penale della Corte di Cassazione la quale ha rigettato il ricorso proposto da T.S. avverso l’ordinanza del 23.02.2016 del Tribunale del Riesame di Perugia la quale confermava la pronuncia del Giudice per le Indagini Preliminari di Perugia del 4.06.2016. Nello specifico, il GIP di Perugia aveva applicato nei confronti di T.S. la misura cautelare personale degli arresti domiciliari per i seguenti reati: a) induzione indebita a dare o promettere utilità (art. 319 quater c.p.p.) e violenza sessuale commessa abusando delle condizioni di inferiorità psichica della persona offesa (art. 609 bis c.p. comma 2, n. 1).
T.S., brigadiere dei Carabinieri, era stato infatti accusato di aver indotto la prostituta P.A.A. ad aver rapporti sessuali con lui oltreché di aver indotto M.M. ad avere con lo stesso, in circostanze diverse, rapporti sessuali, abusando dell’inferiorità psichica di questa.
Mediante ricorso avanti alla Suprema Corte, T.S., a mezzo del suo legale, deduceva come motivi, tra gli altri, la carenza dei gravi indizi di colpevolezza di cui all’articolo 273 c.p.p. il quale recita testualmente che “nessuno può essere sottoposto a misure cautelari se a suo carico non sussistono gravi indizi di colpevolezza”.
Al contrario, gli Ermellini hanno ritenuto che in entrambi i provvedimenti (quello impugnato dal Tribunale del Riesame e quello emesso dal GIP) non sussistevano delle carenze motivazionali – come invece prospettato dal T.S. – e hanno aggiunto che tale presunta carenza di gravi indizi di colpevolezza non era in alcun modo supportata da elementi certi negli atti. Nel caso di specie, gli elementi indicati dai due provvedimenti sopra menzionati devono ritenersi, secondo la pronuncia della Suprema Corte, “gravi, univoci e convergenti nell’indicare il ricorrente autore dei fatti”.
Vi è di più: dall’Ordinanza del 23.02.2016 risultava che il T.S. avesse filmato integralmente gli incontri sessuali avuti con le donne (sia quelle indicate al capo di imputazione che altre donne). Dalla visione di tale filmato, oltreché dal contenuto del colloquio all’interno di tale registrazione video, emergevano, in maniera inconfutabile, i gravi indizi dei reati in contestazione.
La Corte si è soffermata, poi, ad analizzare l’uso delle registrazioni video e sonore ritenendo che “la registrazione, video e/o sonore, tra presenti, o anche di una conversazione telefonica, effettuate da uno dei partecipanti al colloquio, o da persona autorizzata ad assistervi, … costituisce prova documentale valida e particolarmente attendibile, perché cristallizza in via definitiva e oggettiva un fatto storico – il colloquio fra presenti o la telefonata”.
La Suprema Corte, inoltre, ha sottolineato che le registrazioni di conversazioni (e di video) tra presenti – compiute di propria iniziativa da uno degli interlocutori – non necessitano dell’autorizzazione del giudice per le indagini preliminari di cui all’art. 267 c.p.p. in quanto non rientrano nel concetto di intercettazione in senso tecnico, costituendo una particolare forma di documentazione.
Nel caso di specie, in relazione all’utilizzo delle registrazioni video e sonore aventi ad oggetto episodi di violenza sessuale, gli Ermellini hanno ritenuto tali fonti particolarmente valide ai fini della ricostruzione oggettiva delle violenze: le moderne tecniche di registrazione permettono, infatti, una “documentazione inconfutabile ed oggettiva del contenuto dei colloqui e/o di telefonata tra il violentatore e la vittima”.